18/03/2022
Si trattava non solo di una crisi sociale, politica ed economica, ma anche di un declino intellettuale e morale. Prossimo al fallimento era l’ottimismo umanitario che i primi decenni del Novecento avevano ereditato dal razionalismo illuminista e dal positivismo ottocentesco.
«L’ottimismo è viltà» (Optimismus ist Feigheit) era la celebre massima di Spengler, che annunciava e auspicava l’avvento di un regime cesaristico fortemente autoritario, il solo che avrebbe potuto salvare la Germania e la civiltà intera. Sebbene io sia lontanissimo dall’ideologia illiberale e totalitaria di Spengler e in generale dal suo profetismo apocalittico, alcune premesse metodologiche di questo mio libro, come vedremo, concordano per alcuni aspetti con il suo approccio cognitivo. Condivido il tentativo di demolire il mito progressista ed evoluzionista secondo il quale la civiltà procede senza sosta verso il meglio, e questo «meglio» è rappresentato da una civiltà per eccellenza, quella razionalista e tecnologica – in una parola «moderna» – chiamata «Occidente». Nel condividere questa tesi mi sento in perfetta sintonia con Norberto Bobbio. È necessario essere consapevoli del carattere ingannevole delle visioni generali del mondo – le «grandi narrazioni» o, come un tempo si diceva, le Weltanschauungen – in particolare di quelle ispirate all’idea progressista e avvenirista dell’emancipazione dell’uomo. La storia umana, tra salvezza e perdizione, sosteneva Bobbio, invia segnali ambigui: non si sa mai in quale direzione essa proceda, poiché molto probabilmente non ha alcun obiettivo prestabilito, nessun disegno, nessun destino. Per Bobbio il pessimismo era un dovere: era una scelta consapevole che egli rivendicava come una prova di responsabilità e di rigore intellettuale. Ricordo una sua frase emblematica: «Non dico che tutti gli ottimisti siano fatui. Ma certamente tutti i fatui sono ottimisti». Archiviata l’esaltazione illuministica dell’unità e universalità del pensiero (occidentale), occorre passare a filosofie meno ambiziose che accettino senza scandalo la frammentazione dei saperi, le differenze culturali, le discontinuità storiche, l’incertezza del futuro, il tramonto. Conoscere significa impegnarsi in una ricerca senza fine – unended quest, diceva Karl Popper – senza la minima pretesa di raggiungere la «verità». La ricerca «scientifica» è una medaglia che da una parte presenta l’immagine dello scrupolo analitico, del rigore critico, del distacco e, soprattutto, di una impietosa auto-ironia; dall’altra parte offre la testimonianza di una passione intellettuale e di una partecipazione civile che è sicuramente assai più educativa del formalismo esangue e del tecnicismo di cui è prodiga la cultura accademica. A certe condizioni – ha scritto paradossalmente Otto Neurath, uno degli esponenti più autorevoli del Circolo di Vienna – l’amore e l’odio possono essere «ottimi maestri» persino di chi si occupa professionalmente di questioni scientifiche: almeno nel senso che possono alimentare la passione per la ricerca e attivare punti di vista del tutto inediti. E Joseph Schumpeter ha scritto che ciò che caratterizza l’uomo colto è proprio il fatto che egli riconosce la validità relativa delle proprie convinzioni senza tuttavia rinunciare a combattere per esse. Del resto, mai il pensiero accademico si rivela più fanaticamente partigiano di quando pretende di collocarsi super partes, in una posizione oggettiva e neutrale. La storia umana non può essere dogmaticamente concepita come uno sviluppo lineare, come una vicenda unica che avvolge l’umanità intera secondo una logica provvidenziale: una provvidenza darwiniana che esclude ogni possibile «tramonto dell’Occidente». Personalmente ritengo che molto spesso l’ottimismo è soltanto ingenuità, rassegnazione, apatia, opportunismo, quando non è menzogna, mistificazione, enfasi oracolare. E mi sembra illusorio sostenere la centralità del cosmo occidentale e attribuirgli una funzione egemonica non solo nella storia del passato, ma anche nel presente. Secondo me non è un caso che l’Occidente sia ormai soffocato da crisi politiche, militari ed economicofinanziarie di dimensioni globali, oltre che dall’emergere competitivo di nuove grandi potenze come l’India, la Cina e il Brasile.