Beni culturali umani

Reificazioni, risignificazioni, restituzioni

13/01/2025

La ricerca esposta in questo breve saggio si propone di esaminare alcuni aspetti rilevanti dello statuto giuridico dei ‘beni culturali umani’. L’uso di questa locuzione ha, prima di tutto, l’obiettivo di indicare, con una formula sintetica, l’oggetto principale di questa indagine, ovvero i resti umani che, a causa dell’interesse culturale suscitato, sono oggetto di una peculiare considerazione da parte dell’ordinamento giuridico. A ciò va, inoltre, aggiunta l’intenzione di segnalare, fin dal nomen utilizzato per indicare questa particolare classe di ‘cose’, la loro specifica carica polemogena. E poiché si tratta di una carica che dipende in larga misura dalle divergenti rappresentazioni che le interessano, sono stati volutamente giustapposti dei termini che, secondo la mentalità giuridica moderna, appartengono a campi semantici e categoriali differenti (o meglio, opposti): il termine ‘umani’, infatti, richiama immediatamente la principale qualità delle persone fisiche, specie eminente della categoria del ‘soggetto di diritto’; il termine ‘beni’ è, invece, chiaramente espressione dell’opposta categoria dell’‘oggetto di diritto’. Un oggetto che ha le caratteristiche del soggetto o, se si vuole, un soggetto che trasmuta in oggetto senza perdere alcuni tratti dello stato precedente, non può che generare dei dubbi ricostruttivi, interpretativi e pratici degni di attenzione. Basti pensare a tutte le volte in cui occorra prendere una decisione che dipende, innanzitutto, proprio dalla scelta dell’aspetto da privilegiare: sarà quello dell’umano o quello del bene? In termini più ampi: la soggettività o l’oggettività? E fino a che punto la peculiare natura – umana, appunto – di queste cose ha dei riflessi sulla loro ‘destinazione’? Come spiegare le commistioni di disciplina – se di commistioni è possibile parlare – alla luce della dicotomia (soggetto/oggetto) con cui normalmente vengono risolti i conflitti? Oppure, cambiando radicalmente prospettiva, sono i nostri stessi modelli culturali e giuridici – troppo rigidi nelle alternative concettuali che ci restituiscono – a rivelarsi non più degli ‘utili servitori’, ma dei ‘tirannici padroni’? Come s’intuisce, al fondo di questo primo gruppo di questioni c’è un interrogativo rivolto, in modo diretto, alla categoria del ‘soggetto di diritto’, la quale viene in questo contesto messa in discussione proprio rispetto alla complementare categoria dell’‘oggetto’. Non si tratta – è appena il caso di dirlo – di una polverosa questione dogmatica: per rendersi conto della sua attualità, è sufficiente ricordare che l’esclusione dei resti umani dai più importanti strumenti giuridici di protezione internazionale dei beni culturali attualmente in vigore è avvenuta proprio perché il loro inquadramento nell’ambito delle ‘proprietà’ è stata ritenuta inaccettabile dalle rappresentanze politiche di altre tradizioni culturali. Né, sotto questo stesso profilo, possono essere trascurate le perplessità registrabili anche in esperienze più vicine a quella italiana e finanche nella nostra stessa esperienza. L’indicazione che si trae da questi semplici dati è, dunque, contraria a una certa vulgata: le sempre più intense interazioni tra le culture e l’evoluzione delle sensibilità rivitalizzano – sotto nuovi e impensati profili – quelle che solo ad uno sguardo miope potevano apparire come delle ‘vecchie questioni dogmatiche’ (mai, peraltro, davvero sopite). Il criterio di individuazione della categoria del soggetto di diritto rappresenta un tema attuale, sul quale sarà necessario soffermarsi in via preliminare perché è, semplicemente, cruciale per la soluzione di molti dei quesiti che si agitano dietro lo statuto giuridico dei beni culturali umani. Una volta concluso l’esame di questo primo aspetto, occorrerà chiarire quali sono i limiti che la peculiare natura delle cose considerate pone alla loro disponibilità e al loro utilizzo. Si colloca su questo piano, innanzitutto, l’esigenza di indagare il loro regime dominicale. Secondo la tradizione, infatti, il cadavere dovrebbe intendersi, in via generale e comune, una res extra commercium. Eppure, come si vedrà, esiste una prassi, ampiamente diffusa anche all’estero, che consente di registrare casi di ‘doni’, ‘scambi’, ‘prestiti’ di resti umani. Del resto, come si giustificano gli ‘acquisti’ compiuti dai Musei? Come si giustifica la diffusa ‘disponibilità’ di resti umani da parte di persone giuridiche private senza scopo di lucro (come gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti)? Da qui sorge la domanda: ma davvero i resti umani sono sempre da intendersi res extra commercium? E qual è la vicenda che li interessa, che è tale da determinare, sul piano giuridico, un mutamento di disciplina? Sul crinale dei limiti all’utilizzabilità dei resti umani che presentano un interesse culturale, va poi prospettata la sostenibilità logico-giuridica di riferire il valore della ‘dignità’ (tipico delle persone) ad una ‘cosa’, comprendendo il senso e i limiti di questa proiezione. Per chiarire ciò che si intende dire, ci si chieda ad esempio: ma è compatibile con la ‘dignità’ da riconoscere ai defunti, l’esposizione museale dei resti di una ‘persona’ usati per l’elaborazione di teorie che tentarono di sostenere, sulla base della loro morfologia, le (asserite) radici biologiche del comportamento criminale?