Educazione all’uguaglianza di genere ed educazione linguistica
Edited by: Fratter, I.; Jafrancesco, E.; Tucci, I.
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Educazione all’uguaglianza di genere ed educazione linguistica

13/01/2025

Le parole che utilizziamo per designare l’esistente, per esempio cose, persone, eventi, hanno spesso una connotazione non neutra, pertanto attraverso il linguaggio possiamo contribuire anche in modo inconsapevole a rafforzare pregiudizi e stereotipi culturali. Adottare un linguaggio non sessista significa ricorrere a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere per contribuire a garantire la parità fra i sessi. Un linguaggio cioè che miri a evitare scelte discriminatorie, basate, per esempio, sull’idea che uomini e donne siano destinati a svolgere ruoli sociali differenti e che esista un solo modo predefinito di essere uomini e donne nella società. L’uso di un linguaggio trasparente e inclusivo in termini di genere, non solo favorisce l’abbattimento degli stereotipi legati al genere, ma accelera anche il raggiungimento di una effettiva parità fra uomini e donne, dando così un importante impulso al benessere sociale. Il linguaggio è un potente strumento a nostra disposizione, che, se da un lato riflette la visione del mondo di ognuno/a di noi e della società a cui apparteniamo, dall’altro è in grado di influenzare percezioni, atteggiamenti, comportamenti. In altre parole, il pensiero è in larga parte condizionato dal linguaggio e le norme grammaticali della lingua controllano e danno forma alle nostre idee, rappresentando la guida della nostra attività mentale1. Da qui la necessità, soprattutto per chi opera nel settore educativo e in quello della comunicazione, di avere consapevolezza delle forme linguistiche che vengono utilizzate, poiché possono essere il veicolo di ideologie e di pregiudizi contrari alla donna, che magari non siamo in grado di riconoscere a causa della loro natura inconscia e della loro pervasività (Sabatini 1993). Da qui anche la necessità di impegnarsi a favore di un uso della lingua che riconosca le differenze di genere, in modo da garantire che nessun genere sia avvantaggiato e che non siano perpetuati pregiudizi a esso legati. Il mondo dell’istruzione e della formazione, come è naturale per le finalità educative che lo contraddistinguono, può svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppare nelle giovani generazioni la consapevolezza di tali problematiche, che, a ben vedere, non hanno un carattere esclusivamente linguistico. Le discriminazioni di genere che passano attraverso un uso sessista della lingua nuocciono all’uguaglianza fra le persone – valore fondante della Carta costituzionale –, pertanto il contrasto alla disparità (nelle scelte linguistiche e non) fra uomini e donne e la promozione del rispetto delle differenze sono competenze che gli studenti e le studentesse devono sviluppare come parte fondamentale dell’educazione alla cittadinanza. Da qui l’importanza che il contesto educativo, come auspica Alma Sabatini (1993, 14) «non pretenda […] adesione cieca all’una o all’altra norma, cioè a quella prescelta da l’insegnante», ma che proponga una riflessione critica sulle varie posizioni esistenti, in modo che possano essere fatte scelte consapevoli. A partire da tali premesse, e in particolare in relazione alla rilevanza che tali tematiche hanno nella formazione di cittadini e cittadine consapevoli, il presente volume intende affrontare il tema della neutralità di genere nel linguaggio, intendendo con «neutro» un linguaggio in grado di garantire la parità di trattamento a tutti i generi, capace di contribuire a porre fine alle discriminazioni e ai pregiudizi nei confronti del genere femminile attraverso il superamento di scelte linguistiche inadeguate, che tendono a opacizzare la presenza delle donne f ino a farla scomparire2. Si pensi, per esempio, all’uso di parole come chirurgo, ministro o sindaco in riferimento a donne, oppure l’uso del cosiddetto «maschile non marcato», che prevede l’estensione del genere grammaticale maschile per riferirsi a uomini e a donne (p. es. i diritti dell’uomo, l’uomo medioevale). Come suggerito in documenti di vario genere (indagini, raccomandazioni, linee guida)3, a partire dalle Raccomandazioni di Alma Sabatini, contenute nel suo pionieristico lavoro del 1987, Il sessismo nella lingua italiana – in cui si lamenta con forza quanto la lingua italiana, al pari di molte altre, sia basata su un principio androcentrico: «L’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico» –, la soluzione che risulterebbe maggiormente accettabile per la comunità dei/delle parlanti sarebbe quella di promuovere – così come si sta facendo da alcuni anni, per esempio, in alcuni settori del mondo politico4 – l’adozione di usi della lingua che riflettono le differenze di genere attraverso il ricorso al genere grammaticale, coerentemente con le regole del sistema linguistico dell’italiano. Non si tratta, d’altronde, di ‘inventare’ parole che non esistono, ma di utilizzare parole che rispettano le normali regole di formazione delle parole: in riferimento a donne, per esempio, si dovrebbero usare le forme femminili corrispondenti ai nomi maschili (chirurga, ministra, sindaca), oppure, in riferimento a uomini e donne, entrambe le forme, maschile e femminile (p. es. i diritti degli uomini e delle donne/i diritti delle donne e degli uomini, l’uomo e la donna medioevali/la donna e l’uomo medioevali), ma anche forme neutre, che non specificano il genere dei referenti (p. es. i diritti umani, la popolazione medioevale). A proposito del cosiddetto «maschile inclusivo», si ricorda che in uno dei documenti in cui si riconosce la posizione dell’Accademia della Crusca (Guida alla redazione degli atti amministrativi; Accademia della Crusca, ITTIGCNR 2011, 29), il suo uso si dovrebbe limitare ai «riferimenti interni al fine di non appesantire il testo», mentre si raccomanda di usare la forma maschile e femminile ogni qual volta il riferimento è a persone determinate. Tuttavia, la questione delle scelte linguistiche utilizzabili è solo apparentemente semplice. Come sottolineava Cecilia Robustelli (2000, 523) oltre venti anni fa, la società stenta a riconoscere alla donna la possibilità di svolgere professioni di prestigio un tempo riservate agli uomini. Fintanto che si tratta di fare la cassiera o la cameriera, non ci sono problemi, ma quando si mira più in alto, la questione cambia. Pertanto «si “permette” alle donne di svolgere la professione di chirurgo, avvocato, ingegnere, ma in un certo senso “non lo si dice”. Si tace il fatto. Non si nomina. E il “non nominare” significa “non riconoscere l’esistenza di qualcosa”». A questa anomalia va ovviamente posto rimedio e a questo scopo il ruolo svolto dal mondo dell’istruzione e della formazione è determinante, in quanto è uno dei luoghi privilegiati per sviluppare negli/nelle apprendenti una consapevolezza dell’identità di genere.