«Arrivederci tra dieci anni?»
Edited by: Ferrulli, Giuseppe
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«Arrivederci tra dieci anni?»

Il carteggio Fortini-Rossanda (1951-1993)

16/12/2024

Nel saggio introduttivo a questo volume, Giuseppe Ferrulli fa giustamente notare come nel carteggio Fortini-Rossanda sia possibile recuperare non tanto riferimenti alle rispettive vicende biografiche, in realtà ridotti al minimo, quanto piuttosto un «lunghissimo resoconto della contemporaneità»1, puntualmente ripercorso nei suoi diversi momenti salienti. Il curatore, infatti, mette in luce come i due interlocutori discutano le vicende politiche, sociali e culturali, sia italiane che internazionali, attraverso due modalità, che potremmo quasi definire post e ante factum: la prima, di gran lunga la più frequente, registra la discussione che si innesca dopo la pubblicazione, da parte di uno di loro, di un articolo o di un contributo, o anche in seguito a un evento a cui, in qualche forma, hanno partecipato; la seconda, più desueta, prevede uno scambio di opinioni o una riflessione, soprattutto sulle condizioni e sul futuro della sinistra italiana. Se è vero, quindi, che il carteggio è soprattutto questo, è però altrettanto vero che è una splendida testimonianza del rapporto di profonda amicizia e di rissosa stima che, nel corso di una vita, ha legato l’uomo di lettere Fortini e la donna d’azione politica Rossanda. Da questo punto di vista, il grande interesse di questo scambio epistolare non consiste perciò nella possibilità di ricostruire con maggiore perfezione le biografie dei due protagonisti, quanto piuttosto apprezzare gli aspetti più umani della loro relazione, ovvero entrare nelle pieghe del loro rapporto, perfettamente alla pari. Il vincolo che li tiene così a lungo legati è talmente intimo da rendere lecito, a più riprese, un reciproco rimprovero (anche se, assai più spesso, e più rissosamente, è Fortini a muovere recriminazioni a Rossanda) o il confidarsi paure e timori, altrimenti non condivisibili. Così, ad esempio, quando Rossanda confessa all’amico di sentire di aver perso la propria identità o di capire quale essa sia stata:

Non ti viene mai il dubbio che io possa essere diversa; che l’incertezza è quel che conosco di più. Quest’intuizione non ti viene. […] Ho taciuto molto per restare nel Pci, quando ho parlato mi sono presa le mie responsabilità e ne sono uscita, senza coprire di merda quelli che mi mettevano fuori. Non sono felice di essere sola, adesso che posso dire quello che mi pare; il collettivo del manifesto non ha le orrende colpe del Pci, in compenso ha delle colpe ridicole. Io non sono un genio, sono una povera diavola; tu sei un poeta, un professore universitario, quel che era la tua identità l’hai avuta. La mia identi‹t›à è di essere comunista, e non lo sono; non me ne importa niente di niente altro, per rapporto a quel che ho capito un giorno del 1943 e rispetto al quale ho collezionato soltanto cammini faticosi approdanti in vicoli ciechi. Adesso ho 57 anni fra poco, e certo non vedrò nulla di quel che per me conta, non sarò nulla, va bene. Io voglio sapere prima di morire cosa sono stata, e come essere decentemente comunista, e come dirlo – non solo in forma di memoria.

Lo stesso tasso di confidenzialità si registra, ad esempio, anche in una lettera dell’inizio del 1982 dove la giornalista racconta a Fortini di un incontro avvenuto a Perugia, durante il quale si era ritrovata, con disagio, a difendere la memoria del femminismo, per l’appunto a cospetto di due «femministe “storiche”». A questo proposito Rossanda manifesta all’amico l’irritazione e il disagio nei confronti dei calorosi applausi del pubblico, formato da giovani che del movimento degli anni Settanta parevano non conoscere nulla. Fastidio motivato non solo dalla mancanza di memoria dei fatti recenti, affidati nel migliore dei casi alle sole memorie giudiziarie – «Non è un caso che le “memorie” degli anni dal 1968 al 1980 stiano tutte e solo negli atti giudiziari, scritte dai Calogero, o se va bene dai Palombarini, e tout recemment dai pentiti» – ma, dal punto di vista personale, per essere divenuta un’icona apprezzata e amata in quanto tale e non per ciò che pensa e dice:

E davanti a me c’erano 350-400 giovani, fra i 18 e i 22 anni, che dei movimenti degli anni ’70 parevano non saperne nulla; silenziosi, come se parlassi, che so, della congiura dei Fieschi. Però mi applaudivano energicamente, prima che prendessi la parola, durante e dopo, ma perché sono (io che detesto Baudrillard, figurati) un pezzo dello spettacolo nazionale – la vieille dame digne. Mai ho avuto come in questi mesi la sensazione acutissima (salvo nel sud, e anche qui bisognerebbe capire perché) ‹che› sono “amata” per quel che sono, restando del tutto indifferente quel che dico. È come se mi ammazzassero, mi azzerassero – fossi già una pura immagine.