Paolo Benvenuti

Il pittore con la macchina da presa

24/03/2025

Se con una parola ci proponessimo di delineare sommariamente la tendenza nevralgica del cinema italiano negli ultimi trent’anni, credo dovremmo convenire che il termine disgregazione sia certamente il più calzante. Scrive Gian Piero Brunetta analizzando il mutamento di tendenza già ravvisabile dagli anni Settanta:

Se nella prima fase del decennio, pur nella pluralità delle caratteristiche, si possono trovare concordanze e omologie, nelle esperienze dei registi esordienti, dopo il ’77 il tratto distintivo è dato dalla disorganicità, dalla difformità assoluta delle provenienze, dalla perdita di un centro produttivo e di un modello registico e realizzativo unificante. “Isolamento” e “solitudine” sono caratteristiche che definiscono le ultime due generazioni di registi. (Brunetta 2003, 348-49)

L’analisi di Brunetta è quanto mai veritiera tanto che oggi, analizzando il trend del cinema italiano, parliamo ancora di disgregazione non riferendoci però a essa in accezione esclusivamente negativa. Disgregazione, potremmo dire, in quanto il cinema dei maestri è finito da un pezzo e anche del cinema ‘dei maestri dei maestri’ è da un bel po’ che non si sente parlare. Disgregazione anche nella natura del fenomeno-cinema connessa con la nascita di nuovi autori e di opere nuove; un proliferare di piccole e microscopiche realtà disconnesse e ognuna con un suo modo di essere al mondo, di esprimersi, di farsi vedere. Dalla fine degli anni Settanta si è andato perdendo il tessuto connettivo che legava i grandi autori di un tempo e ammaliava i giovani autori in divenire. Il titolo morettiano che oggi potremmo e credo dovremmo leggere come un manifesto, Io sono un autarchico, si è globalizzato. Oggi anche coloro che escono dalle accademie del cinema, sono degli «autarchici». In tal senso, evidenziando la dinamica del fenomeno così scrive Brunetta:

A Torino e Milano, a Bassano e Bari, a Bologna e a Napoli, si registrano decine di esperienze di esordi “selvaggi”. L’immagine del regista è privata del suo alone carismatico e restituita a un contesto in cui il servirsi della macchina da presa o della telecamera diventa la forma più semplice e diretta di comunicazione. Il modo migliore per capire, in senso topologico, le relazioni dei singoli con l’insieme è quello di ricorrere alla figura matematica delle polveri di Cantor, ossia del riconoscimento di una gran quantità di punti distribuiti e fluttuanti nello spazio mancanti di un piano comune d’appoggio. (Brunetta 2003, 349)

La ricerca qui di seguito presentata prende in esame un autore del cinema italiano, che per solide scelte personali ha deciso appunto di declinare la sua carriera di «artigiano del cinema» – come lui la definisce – in sordina, seguendo un percorso in solitaria. È il caso del cinema di Paolo Benvenuti, autore pisano che inizia la sua carriera alla fine degli anni Sessanta portando a termine svariate esperienze in 16mm: Il Balla Balla (1968), Fuori gioco (1969), Del Monte Pisano (1971), Medea. Un maggio di Pietro Frediani (1972), Frammento di Cronaca volgare (1974), Il Cantamaggio (1978), Bambini di Buti (1979), Il giorno della regata (1983), Fame (1984). È del 1988 il suo primo lungometraggio Il bacio di Giuda. Negli anni Novanta firma altre due opere: Confortorio (1992) e Tiburzi (1996) e dal 2000, i suoi ultimi tre lungometraggi: Gostanza da Libbiano (2000), Segreti di Stato (2003), Puccini e la fanciulla (2008). Morando Morandini, occupandosi del regista pisano, così evidenziava la natura distaccata del suo cinema:

Regista che il successo inteso come incassi non l’ha mai avuto anche perché non l’ha mai cercato. Più che un marginale, è un isolato, un “outsider” e non soltanto perché è un regista “part-time” che si guadagna da vivere come impiegato. I suoi f ilm sono lezioni di storia; se si vivesse in un altro paese, sarebbero proiettati nelle scuole superiori e nelle università. […] Di se stesso, come riferisce Tullio Masoni, ha detto una cosa che considero straordinaria: di aver cominciato a fare cinema sapendo di “non aver niente da dire” e che, perciò, gli restavano le scoperte da offrire in dono agli amici. (Morandini 2001, 19) Così Adriano Aprà traccia efficacemente la logica del cinema di Paolo Benvenuti: Il suo cinema, produttivamente indipendente, pone con estremo rigore il problema di un’etica della ripresa; che cosa, come e perché filmare diventano interrogativi fondamentali che determinano tecniche e stile dei singoli film. È un approccio “ontologico” al cinema, che riconduce alle loro radici gli strumenti del mestiere. Artigianato prima che arte, il cinema di Benvenuti è, in questa logica, “primitivo” e, come i film dei pionieri del cinema, “mostrativo”. Il suo intento è didattico, non spettacolare. Lascia vedere e ascoltare, senza illudere. La forte sintonia dell’autore con la cultura popolare (pittorica, teatrale, letteraria) si coniuga con un sapiente didattico confronto con la cultura delle classi alte. Marx e Brecht, assimilati in maniera né ideologica né dogmatica, sono i padri putativi di questo cinema, assieme a Carl Theodor Dreyer, Roberto Rossellini (soprattutto quello televisivo) e Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Lo “sperimentalismo” di Benvenuti sta nell’isolamento che tale pratica deve subire rispetto al resto del cinema italiano; ma quella che può apparire un’esperienza d’avanguardia è in realtà una morale “contadina” del fare il cinema che dovrebbe essere alla base di ogni film. Il teatro popolare del maggio; la pittura rinascimentale, utilizzata come punto di riferimento figurativo; il linguaggio scritto, filologicamente rispettato e insieme reinventato per la dizione orale in presa diretta, e vivificato dalle cadenze dialettali e locali di interpreti non professionisti; la selezione dei luoghi di ripresa, dei costumi e dell’arredamento. (Aprà 2005, 297, il corsivo è dell’autore)