03/10/2023
Malgrado il ritardo, spesso evocato, con il quale gli storici si sono avvicinati al tema dell’internamento dei militari italiani in Germania all’indomani dell’8 settembre 1943, si può senz’altro dire che l’argomento gode oggi di una bibliografia talmente consistente, da essere dominata con difficoltà anche dallo studioso più scrupoloso.
L’abbondanza dei contributi è dovuta senz’altro all’importanza del tema in questione, nel quale convergono problemi storici di ampio respiro, da quelli legati all’andamento della guerra ad altri connessi con la produzione industriale del Reich. Il dibattito però si è arricchito anche in conseguenza della diversità delle accentazioni date dagli studiosi nel valutare specificamente ciò che l’internamento militare può aver rappresentato nell’articolato panorama della resistenza – o, per meglio dire, delle resistenze– al nazifascismo. Un recente saggio di Nicola Labanca ha avuto il merito di chiarire in modo molto convincente che, in presenza di una produzione storiografica ampia e significativa, emergono divergenze interpretative piuttosto nette, le quali si allontanano su un punto nodale, ossia il riconoscimento dell’internamento come parte, a tutti gli effetti integrante, della resistenza intesa nella sua valenza politica oppure, di contro, come ‘semplice’ esperienza di prigionia, per quanto straziante e dolorosissima. È facile capire che non si tratta di un punto secondario di riflessione, perché implica una ben diversa configurazione della memoria pubblica dell’internamento. La prima linea interpretativa – che ha avuto un punto di riferimento autorevole in Giorgio Rochat alla metà degli scorsi anni Ottanta – ha aperto e mantiene vivo il confronto con quanti hanno messo la lotta armata alle radici della Repubblica italiana nella prospettiva di una integrazione di tutte le forme resistenziali, concomitanti e quindi, nell’insieme, decisive per la caduta del fascismo. La seconda linea ha invece teso a contenere il fenomeno dell’internamento in una dimensione istituzionale, legata cioè più strettamente al contesto militare per analizzarla nelle dinamiche specifiche della prigionia, dello sfruttamento del lavoro coatto, delle dure condizioni di reclusione, della contrapposizione tra il ‘cattivo tedesco’ e il ‘bravo italiano’, senza dare a tutto ciò una portata di particolare rilievo in riferimento al contrasto al nazifascismo e alla maturazione di una coscienza antifascista: in sostanza una interpretazione molto più limitativa della portata politica dell’internamento stesso.
Nel lasciare al lettore il ricorso al saggio di Labanca, che dell’impostazione di Rochat è stato il principale continuatore, per un’analisi della storiografia e per un confronto fra le diverse interpretazioni, basti qui solo sottolineare come esista una sostanziale convergenza degli studiosi su una serie di aspetti che in breve tenterò di riassumere. Dopo l’8 settembre 1943 due elementi concorrono a mettere in crisi la solidità dell’esercito italiano: l’assenza di ordini provenienti da un’autorevole linea di comando e la contestuale rapidità dell’intervento tedesco, subito pronto ad affrontare la particolare congiuntura secondo un’apposita pianificazione predisposta per tempo nell’eventualità di un armistizio separato da parte dell’alleato italiano, così da prendere velocemente il controllo del Regio Esercito allo sbando («operazione Achse»). A quel punto per i soldati italiani, spesso ingannati anche dalla falsa prospettiva di rientrare a casa, rimase la possibilità di scegliere tra l’adesione alle truppe ausiliarie del Reich e l’arruolamento nelle file dell’esercito fascista repubblicano in via di costituzione: per chi non avesse optato per una delle due alternative ci sarebbe stato il lavoro coatto in terra tedesca. Com’è noto, stando alle stime fornite da Gerhard Schreiber e alle successive verifiche, a fronte di 2 milioni di soldati italiani distribuiti nei vari fronti di guerra, ne vennero disarmati dai tedeschi poco più di un milione, ma non tutti furono avviati ai campi di prigionia e molti riuscirono a scappare: degli 810.000 rimasti poco meno di un quarto (tra 180 e 200.000 uomini), in parte subito e in parte via via nel corso del biennio 1943-19458, scelse di entrare nel novero delle truppe tedesche o fasciste, mentre tre quarti (oltre 600.000) preferirono la prigionia: fu la prima manifestazione di un rifiuto di massa di accettare gli ordini di Hitler e Mussolini.
In questo scenario un aspetto non deve però essere trascurato: l’assoluta necessità da parte tedesca di utilizzare gli italiani come forza-lavoro in una fase in cui la produzione industriale legata agli armamenti, e non solo, rischiava di essere limitata dalla crescente carenza di manodopera. A spregio di ogni convenzione internazionale i prigionieri di guerra provenienti dai vari Paesi conquistati, a cominciare da russi e polacchi, vennero infatti immediatamente impiegati per rimpiazzare operai e lavoratori tedeschi richiamati alle armi. Ai soldati italiani, a seguito di un preciso ordine di Hitler del 20 settembre 1943, fu pure negato lo status di prigionieri, a vantaggio appunto di quello di internati, ovvero di soldati di uno Stato alleato, in questo caso la Repubblica di Salò, trattenuti in terra tedesca come lavoratori, operazione che tolse agli internati stessi l’assistenza della Croce rossa internazionale11. In uno scenario privo quindi di ogni tutela giuridica – per quanto abbia senso rivendicarla in un contesto bellico feroce come quello della Seconda guerra mondiale – e nell’assenza di ogni interlocuzione effettiva da parte della Repubblica fascista, gli internati militari italiani si trovarono ad affrontare una vita terribile sui luoghi di lavoro e nei lager, dovendo sopportare fame, freddo, malattie e violenze continue: sulla base dei dati oggi disponibili i caduti nei campi tedeschi sono stimati in quasi 51.000.
Pur in condizioni di vita durissime che colpirono tutti i detenuti nei lager, la reclusione degli internati non giunse comunque a prevedere violenze e stermini come quelli rivolti negli stessi anni a ebrei e ad altri deportati per motivi razziali o politici, dei quali il regime nazista aveva pianificato la sistematica eliminazione. E al contempo nei confronti dei soldati italiani venne adottata una differenziazione fra il trattamento riservato a militari di truppa e sottufficiali, concentrati in specifici campi (Stammlager ovvero Stalag) e destinati immediatamente al lavoro, rispetto agli ufficiali, cui furono riservati appositi lager (Offizierslager ovvero Oflag), lasciando loro, nella maggioranza dei casi, la scelta di aderire alle richieste di impiego: ciò almeno fino all’estate-autunno 1944, quando domani il nuovo cambiamento di status da internati militari a lavoratori civili – la così detta «civilizzazione»15 – pose le condizioni per un generalizzato, anche se per gli ufficiali non sempre effettivo16, obbligo di occupazione in attività lavorative, solo in un primo momento vincolato alla sottoscrizione di una formale adesione.
A fronte di tutto ciò un dato deve essere tenuto presente: la capacità degli internati di creare nei lager condizioni di vita che facessero perno sulla solidarietà e sul mantenimento di un livello minimo di dignità17, allo scopo di alleviare le pene della detenzione e di non perdere la speranza in una via di uscita, in definitiva di fare dell’internamento un’esperienza educativa di crescita individuale e collettiva – e nell’analisi di Alessandro Natta soprattutto un’esperienza di educazione politica –, che ponesse anche le condizioni per guardare al futuro. Sarebbe stato proprio questa capacità a far maturare in centinaia di migliaia di internati – soprattutto tra gli ufficiali, ma anche nella truppa, come si rileva ad esempio dal diario di Giulio Bogino – la consapevolezza della rovina alla quale il regime di Mussolini aveva portato il Paese, e ad avviare così il proprio personale distacco dal fascismo. L’esito della vicenda – ovvero la liberazione degli internati italiani da parte degli alleati nell’aprile 1945, avvenuta dopo non poche traversie sopportate durante la ritirata dell’esercito tedesco e lo spostamento del fronte di guerra – sarebbe culminato col rimpatrio nell’estate 1945. A quel punto si aprì per gli ex-internati il problema del reinserimento nella vita civile e del confronto con quanti avevano vissuto la guerra su altri fronti e in altri contesti. E al problema del reinserimento si aggiunse quello del riconoscimento e della difesa della propria identità di resistenti nella lotta antifascista. Mentre infatti la resistenza armata, in cui si identificarono i partiti della sinistra, divenne un punto di riferimento per consentire loro di rivendicare un ruolo al fianco degli eserciti vincitori e poi per reclamare pari dignità politica con i partiti di governo20, l’«altra» resistenza, passiva e «senz’armi», di cui gli internati erano stati protagonisti, e molti in modo consapevolmente antifascista, non assunse una configurazione unitaria né sul piano dell’ideologia politica né su quello sociale. Anzi, sugli internati, oltre all’ostilità dei neofascisti italiani che rimproveravano loro la mancata adesione alla Repubblica sociale, caddero sospetti di opportunismo, se non anche di collaborazionismo col regime nazista, da cui scaturì una cappa d’ombra che la storiografia ha dissipato dapprima lentamente23 e poi in modo accelerato, come detto, a partire dagli anni Ottanta, contribuendo in modo decisivo al riconoscimento, nel 1997,della medaglia d’oro al valor militare alla memoria dell’internato ignoto.