03/05/2023
C’è una frase nelle conclusioni di questo volume che merita di esser tenuta presente fin da ora: «L’associazione fra gli interessi hucpoldingi e quelli del vescovado non sarebbe stata quindi altro che la riproposizione di un’antica tradizione familiare che risaliva ai Carolingi». Al di là dei nomi impronunciabili (cui conviene abituarsi fin da queste prime pagine), mi pare una sintesi buona e semplice del volume. Il tema del rapporto tra i vescovi e le aristocrazie pieno-medievali (secoli IXXII), quello a cui allude la citazione, è molto trattato: non vale la pena di appesantire queste righe con riferimenti bibliografici, comunque non esaustivi. Dirò soltanto che, negli ultimi anni in ambito italiano, ci si sta concentrando sempre di più su accuratissimi scavi documentari, i quali permettono di inquadrare il tema secondo prospettive inedite. Un panorama fin qui leggibile solo attraverso la voce di scrittori ecclesiastici (cronisti, trattatisti e agiografi) può essere oggi confrontato con dati derivanti dal contesto materiale: gli interessi patrimoniali, i legami parentali. Si scoprono così continuità e contiguità nascoste, si rivelano i contorni di conflitti taciuti. In questo quadro – magistralmente – si è mossa Maria Pia Contessa. Questo studio prende le mosse dalla tesi di dottorato dell’autrice, Monachesimo, istituzioni e società a Firenze nel pieno Medioevo. San Miniato al Monte e San Salvi fra XI e XIII secolo (primi decenni), discussa nel 2013. Quasi dieci anni sono passati da allora e, va detto, non sono passati invano. Contessa ha infatti continuato negli anni successivi la propria ricerca con passione, anche grazie alla digitalizzazione di molti dei materiali documentari utili. Ne risulta un lavoro di profondità e accuratezza più uniche che rare. L’autrice, del resto, aveva già alle spalle uno studio sulla documentazione fiorentina, che l’aveva condotta a pubblicare un volume (L’Ufficio del fuoco nella Firenze del Trecento) nell’ormai lontano 2000. Il fatto che sia dedicato a una fase storica molto distante da quella analizzata nel presente libro ci conferma (nel caso ce ne fosse bisogno) l’ampiezza degli interessi dell’autrice e la sua finezza ermeneutica. Del resto, basterà sfogliare qualche pagina di questo volume e avvicinarsi all’imponente apparato critico per comprendere con quali problemi abbia avuto a che fare Contessa e come sia riuscita a sbrogliare la matassa. Sono state queste caratteristiche di assoluta eccellenza, unite a una metodologia nella quale (come vedremo tra poco) spicca l’attenzione per il dato culturale, a convincere Isabella Gagliardi e Francesco Salvestrini ad accogliere il volume nella collana Fragmentaria. Studi di storia culturale e antropologia religiosa, collana giovane, ma già prestigiosa. È il momento di presentare, in maniera breve e chiara, gli elementi di originalità di questo libro. Per iniziare, basterà che spieghi l’effetto che mi fece, tre anni fa, la lettura del dattiloscritto: rimasi scioccato, e il motivo è presto detto. Avevo dato alle stampe appena nel 2010 un volume sulla società fiorentina tra il 1000 e il 1200: mi pareva di aver rinnovato abbastanza la tradizionale ricostruzione di Robert Davidsohn. Leggendo il dattiloscritto di Contessa scoprivo – con un disappunto, credo, comprensibile – che il mio lavoro era già superato. Ripresomi dallo shock ho cercato, razionalmente, di riconoscere gli elementi che avevano consentito di scrivere un’opera tanto innovativa. Sono arrivato a queste conclusioni in tre punti.
Primo punto: anche se il libro è centrato su Firenze, la ricerca ha un respiro assai più ampio, esteso almeno a tutto il Regno Italico, come insegnano a fare le indagini sull’aristocrazia carolingia e post-carolingia. Ecco perché Contessa riesce a mettere a frutto analisi recenti, come quelle di Edoardo Manarini e Maria Elena Cortese. A livello della singola città, l’esempio più simile e più nuovo è la monografia di Paolo Tomei sull’aristocrazia lucchese. Secondo punto: durante tutta la sua analisi l’autrice non perde mai di vista il contesto di produzione e conservazione degli atti. Io, al contrario, lo avevo programmaticamente escluso, nella speranza di identificare relazioni e interessi inediti. Non rinnego il mio metodo, ma riconosco che l’approccio, più ‘istituzionale’, dell’autrice – del resto, mai applicato sistematicamente nella storia di Firenze per quei secoli – permette una visione molto più chiara dei legami parentali e delle coalizioni di interesse. Terzo punto: un’attenzione speciale verso i segni scritti, le grafie, l’impiego sociale della scrittura, la prosopografia degli scrittori (ecclesiastici, ma anche giudici e notai). Per questa via – anche sulla scorta di un pionieristico studio di Giulia Ammannati – Contessa riesce a documentare molte delle sue intuizioni. Forse questo metodo è quello in grado di offrire maggiori prospettive euristiche ma, nel quadro delle ricerche sulla società cittadina italica, non è ancora molto diffuso: mi vengono in mente le monografie di Gianmarco De Angelis su Bergamo e, ultimamente, quella di Dario Internullo su Roma. Messe insieme, queste tre caratteristiche hanno permesso all’autrice di forgiare un metodo d’indagine, assolutamente rigoroso, che non saprei descrivere senza usare l’aggettivo elegante. Non conviene che chi scrive riveli in apertura quali sono i maggiori risultati: forse ci si può limitare a dire che la storia politica di Firenze ha guadagnato duecento anni a ritroso. Chi legge è stato sufficientemente ragguagliato sui fondamenti: può intraprendere ora il viaggio nella ‘Firenze dei secoli bui’; secoli che non sono mai stati tanto bene illuminati.