Il dono dell’airone
Edited by: Capponcelli, L.; Cucinelli, D.; Ghidini, C.; Mastrangelo, M.; Minuti, R.
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Il dono dell’airone

11/11/2024

La poesia giapponese, avendo come seme il cuore umano, si realizza in migliaia di foglie di parole. La gente in questo mondo, poiché vive fra molti avvenimenti e azioni, esprime ciò che sta nel cuore affidandolo alle cose che vede o sente1. Così comincia l’introduzione giapponese del Kokin waka shū, di Ki no Tsurayuki, che molti dei partecipanti alla presente raccolta di saggi hanno studiato e apprezzato attraverso l’edizione curata da Ikuko Sagiyama nel 2000. Come commenta Fujiwara no Shunzei, sempre nella traduzione di Sagiyama: Se non ci fosse la poesia, pur visitando il fiore di primavera o guardando le foglie autunnali, nessuno capirebbe né il colore né il profumo; allora in che cosa si potrebbe riconoscere l’essenza del bello? A tale incontestabile osservazione si potrebbe aggiungere che, se non ci fosse la traduzione della poesia, non ci sarebbe modo di apprezzare (al di là dei nipponisti addetti ai lavori) l’estetica appartenente ad altri costrutti letterari, collegata o meno alle fattezze della natura. Le migliaia di foglie di parole in italiano hanno quindi arricchito la nostra conoscenza di altre formulazioni di quello che il cuore umano può far fiorire. L’esordio di Sagiyama sensei nell’accademia viene ripercorso con un’eccellente sintesi nella nota di Adolfo Tamburello. L’aspetto che ci piace di seguito sottolineare è quanto la sua presentazione della poesia giapponese in Italia, sin dagli anni Ottanta, sia stata svolta con rigore e al contempo associata, come solo lei sa fare, a un senso di leggerezza e di piacevolezza. L’introduzione della poesia giapponese in italiano risale al tardo ’800 con l’orientalista Antelmo Severini (1828-1809), allievo di Leon de Rosny (18371914) e pioniere della sinologia e della yamatologia nel nostro Paese. I suoi studi, combinati con una profonda erudizione della classicità poetica greca e latina, inaugurarono un crescente interesse per la poesia giapponese in Italia. Inizialmente mediata dalle traduzioni antologiche francesi come lo Shika zenyo (1871) di Rosny e Poèms de le libellule (1884) curata dal Marchese Sayonji Kinmochi (1849-1940) e Judith Gautier (1845-1917),2 presto la popolarità della poesia giapponese in Italia si intrecciò con il giapponismo letterario. D’annunzio, tra gli autori più rappresentativi di questa sensibilità estetica, nel 1885 si cimentò in un componimento lungo in cui combinava la rima alternata con la metrica del waka, che intitolò Outa occidentale. Nel 1915 videro la luce due importanti raccolte di poesia e letteratura giapponese come Letteratura e Crestomazia giapponese di Pacifico Arcangeli e Note di Samisen di Mario Chini. Va inoltre ricordato il ruolo della rivista Sakura, fondata a Napoli nel 1920 dai poeti Harukichi Shimoi (1883-1954) ed Elpidio Jenco (1892-1959), autore nel 1921 di una traduzione italiana di tanka tratti dalla raccolta Seikaiha (Onde del mare azzurro, 1912) della poetessa Yosano Akiko.3 Sebbene di enorme importanza letteraria e filologica, le prime antologie in italiano di poesia giapponese, come si evince dalle relative introduzioni, non erano ancora sufficientemente affrancate da una prospettiva orientalista. Ciò che veniva maggiormente esaltato come tratto distintivo della lirica giapponese, oltre all’immaginario esotizzante, era l’autenticità di una presunta dimensione primordiale che il Giappone avrebbe conservato attraverso i secoli.4 A partire dal secondo dopoguerra l’esistenza di consolidati centri di ricerca come l’Is.M.E.O., che aveva avuto un ruolo importante nei rapporti italo giapponesi, sin dagli anni trenta, l’Istituto di Cultura Giapponese e un sensibile ampliamento dell’offerta universitaria nell’ambito degli studi giapponesi crearono terreno fertile per la nascita di riviste come Cipangu e Il Giappone che includevano, seppur sporadicamente, studi sulla poesia giapponese irrobustiti da un rinnovato rigore metodologico. Va senz’altro ricordata l’opera di studiosi come Marcello Muccioli (1898-1976), autore della prima traduzione italiana integrale dello Hyakunin isshu (La centuria poetica, 1961). Fu, inoltre, Il Giappone a ospitare, sotto la direzione di Adolfo Tamburello, le prime di una lunga e ricca serie di pubblicazioni di Ikuko Sagiyama che includono studi sulla poesia classica e moderna. Volendo indicare gli aspetti in cui è stato innovativo l’approccio di Sagiyama, va evidenziato innanzitutto l’aver saputo togliere il repertorio lirico giapponese dalla cornice del «pittoresco» artisticamente naif, spazio nel quale talvolta sono confinate le culture straniere lette superficialmente, per mostrare invece la varietà di artifici poetici, sviluppati nel corso dei secoli, che dimostrano una tradizione organica e strutturata. In altre parole, l’aver svelato che la poesia breve, che sia waka o haiku, non è sinonimo di spontanea velocità di composizione o semplicità, ma frutto di una sintesi basata su princìpi di composizione codificati, tra cui quello della citazione, concetto diventato cardine nella critica letteraria contemporanea. In secondo luogo, la sua presentazione ha sempre mostrato i collegamenti fondamentali tra l’arte e gli ambienti sociali e storici nei quali le produzioni nascevano, come, ad esempio, il rapporto tra poesia e nobili mecenati. In terzo luogo, aver fatto emergere che la poesia è anche occasione di ludicità, non solo di emozioni struggenti o malinconiche. Vogliamo chiudere con una poesia che pensiamo ben rappresenti la scia di curiosità e conoscenza che il lavoro di Ikuko ha costruito attraverso le generazioni di studenti e studiosi.

Seppur soffia il vento,

mai si disperde

quella striscia di bianche nubi:

è, ecco, l’acqua che scende

perpetua attraverso le generazioni.

(Ōshikōshi no Mitsune)