Linguaggi dal margine

Shakespeare nel teatro italiano contemporaneo

16/12/2024

«Chi possiede Shakespeare?», come si chiede Kim Solga in uno studio sui rapporti di potere interni al sistema teatrale londinese (2017), è l’interrogativo attorno a cui ruota il presente studio, che, sulla scia della produzione performativa e degli studi shakespeariani degli ultimi decenni, si propone di approfondire l’afterlife italiana dell’autore inglese a partire da prospettive che lo interrogano in relazione a soggetti e contesti storicamente minoritari. Sonia Massai, introducendo una raccolta di saggi intorno a variegate appropriazioni locali di Shakespeare, incoraggia la comunità scientifica a prendere queste ultime seriamente in considerazione, laddove esse sono state a lungo oggetto di scarso interesse a causa della loro «cultural and linguistic diversity» (2005, 7). A questo invito si desidera dare seguito con il presente studio, che mira a riconoscere il valore di esperienze meritevoli di uno spazio nella riflessione accademica, pur collocandosi a vario titolo alla periferia della produzione scenica shakespeariana. Esse appartengono infatti a una tradizione nazionale, quella italiana, distante dalla così detta Anglosphere, caratterizzata da elementi peculiari e priva di quel fondamentale veicolo di prestigio che è la lingua del Bardo. I progetti selezionati per questo studio sono inoltre stati scelti perché accomunati, se pur con notevoli differenze, dalla categoria della marginalità. Fondamentale in quest’ottica è stata la produzione della teorica femminista e scrittrice afroamericana bell hooks1, che definisce la marginalità «come qualcosa in più di un semplice luogo di privazione […] un luogo di radicale possibilità» (1998, 68; 1991)2, il tutto senza che del concetto si faccia una «nozione mistica»(1998, 68; 1991) o romanticizzata («secondo cui gli oppressi vivono “in purezza”, separati dagli oppressori» 1998, 70; 1991). È invece un punto da cui è possibile affacciarsi sul centro, pur non mirando esclusivamente a raggiungerlo, ed è un punto da cui è possibile comprendere non solo sé stessi, ma anche quello stesso centro. hooks parla della condizione degli afroamericani, e in particolare delle afroamericane, ma i progetti presi in esame qui condividono con quell’esperienza l’estraneità a una posizione di privilegio e di predominio, all’interno del campo di cui fanno parte: qui, quello teatrale e quello, più specifico, del teatro shakespeariano, secondo declinazioni che saranno a breve passate in rassegna. Non solo: questi progetti rivendicano una relazione di appartenenza condivisa con il centro, poiché essere ai margini significa fare parte di una totalità, seppure al di fuori della sezione principale (hooks 1984, ix), ed essi vogliono essere percepiti proprio come componenti del mondo teatrale nel suo complesso. Shakespeare, in questo quadro, risulta particolarmente funzionale, poiché, in virtù del suo status, consente di superare con facilità i limiti settoriali e di muoversi così verso l’esterno. È importante, infatti, che tali progetti siano considerati parte del circuito teatrale contemporaneo; ciò può avvenire attraverso l’ampliamento dei confini di quest’ultimo, e attraverso un’analisi che li ponga in relazione ad altre forme di teatro, d’arte, di produzione creativa. La presente ricerca persegue tra i suoi obiettivi l’attribuzione di considerazione scientifica a esperienze di Shakespeare marginali perché marginalizzate, a partire dalla consapevolezza che quanto è periferico non lo è ontologicamente, ma sulla base di un processo eterodeterminato. Tale scelta è dettata dalla profonda convinzione dell’interesse di quanto in esame e dalla vitalità dello scambio che può prodursi grazie all’incontro tra diverse prospettive e visioni, tra il teatro e l’approfondimento accademico. Il discorso ‘dell’altro’, infatti, non deve essere usurpato per divenire un discorso ‘sull’altro’: «Spesso questo discorso sull’“Altro” annulla, cancella: “Non c’è bisogno di sentire la tua voce. Raccontami solo del tuo dolore. Voglio sapere la tua storia. Poi te la ri-racconterò in una nuova versione. Ti ri-racconterò la tua storia come se fosse diventata mia, la mia storia”» (1998, 71). Anche la condizione dello studioso di esperienze marginali, dunque, può e deve essere continuamente problematizzata nel tentativo di evitare l’usurpazione di uno spazio e di una parola non sue; e di restituire, al contrario, non dignità e valore, che non devono essere concessi, ma lo status di interlocutori a voci e corpi del tutto in grado di formulare, pronunciare, agire in autonomia. Le interviste semi-strutturate presentate a fine volume, e utilizzate come strumento di indagine, si sono rivelate a tale scopo particolarmente funzionali: nonostante siano state rivolte principalmente agli artisti ideatori e promotori dei progetti, e non ad altri protagonisti in posizioni di maggiore fragilità, esse hanno ottemperato al desiderio di rendere conto di una pluralità. Ciò è accaduto a partire dalla destabilizzazione delle gerarchie precostruite operanti sull’attribuzione, prima di tutto, del diritto di parola, e grazie a un metodo di lavoro incentrato sullo scambio e sulla relazione.