23/12/2024
Sismondi scrisse la Histoire de la chute de l’Empire romain a Ginevra, a metà degli anni Trenta, ma questa tematica apparentemente così distante dai suoi interessi di ricerca e studio era comparsa già nel 1820 per un ciclo di conferenze presso l’Académie de Genève. L’autore stesso ricordava questo precedente nella sua Introduzione, spiegando come col tempo avesse preferito trasferire in un lavoro scritto lo sforzo profuso per tenere una serie di lezioni orali. Dunque un periodo e un tema non nuovi per Sismondi, che certo avrebbe dovuto la sua fama di storico (contemporanea e futura) molto di più al Medio Evo comunale della Histoire des Républiques italiennes du moyen-age e, in seconda istanza, ai ventinove tomi della Histoire des Français. L’opera che qui introduciamo, del resto, risultava molto più breve e, soprattutto, non era accompagnata da alcun apparato critico. Un’opera di divulgazione, si direbbe oggi, e il fatto che il committente fosse quel Dionysius Lardner che con la sua Cabinet Cyclopaedia si proponeva precisamente di fare lavoro di disseminazione in campo umanisticosociale e scientifico1 potrebbe concorrere a indurre a concludere che la Histoire de la chute de l’Empire romain vada irrimediabilmente classificata tra le ‘minori’ e secondarie tanto nell’opus dell’autore quanto nella più vasta sfera della storiografia europea degli anni Trenta. A ben vedere, le cose non stanno proprio così. È sicuramente vero che questo libro rappresenti un unicum per molti riguardi, e che l’assenza del corredo di annotazioni – peraltro ampiamente compensata dal richiamo alle fonti nel testo – non consenta di annoverarlo tra i grandi capolavori della storiografia del periodo. Tuttavia, esso costituisce a nostro avviso una delle opere più interessanti dell’autore, non da ultimo proprio per quegli innesti di economia e pensiero politico la cui latitanza avrebbe fatto decadere, nell’opera classica di Fueter, la storiografia sismondiana a stanco epigono della tradizione illuminista priva di innovazioni significative (cfr. Cfr. Fueter 1943, vol. II, 99-100). Non solo in questo libro le riflessioni dell’economista e del costituzionalista rivestono un peso preponderante nella narrazione di fatti e processi. Il fatto stesso che i due volumetti siano il risultato di un percorso più che decennale consente inoltre di entrare più a fondo nell’atelier sismondiano e misurare conferme e cesure di un quindicennio durante il quale il nostro era trascorso da una stagione di ferreo ottimismo ad una fase di scetticismo nei riguardi della situazione europea e della marcia del ‘vero’ liberalismo (cfr. Sofia 2022, in particolare 93 ss.). In altri termini, la vicenda del testo che presentiamo ci introduce in un tornante decisivo, tra illuminismo e romanticismo, in cui non solo Sismondi si trovò a fare i conti prima con la Restaurazione e poi con la stagione dei dottrinari al potere, per quanto riguardava la Francia, e con gli sviluppi della prima rivoluzione industriale in quell’Inghilterra che conosceva tanto da vicino ma pure in altri paesi. Non da ultimo, si stava per chiudere – certo in grande, col Quarantotto – la delicata ‘età delle rivoluzioni’ e il nostro aveva appuntato occhi e speranze sulla penisola italiana, l’ultimo paese a ispirargli serene premesse per il futuro dopo le delusioni inflitte dalle due potenze liberali. Nel 1818 era uscita la prima edizione definitiva della Histoire des Républiques italiennes du moyen-age. Nel 1819 videro la luce i Nouveaux Principes d’économie politique. Subito dopo, cominciarono gli studi preparatori ai primi tomi della Histoire des Français, scanditi fin dal 1820 dalla redazione di un’altra opera solo apparentemente secondaria del corpus sismondiano, vale a dire il romanzo Julia Sévéra. Al centro, si pongono le conferenze sulla fine dell’impero romano presso l’Académie de Genève. Stava principiando quella intensa stagione in cui il Sismondi storico e costituzionalista avrebbe goduto di grande fortuna, come testimonia tra l’altro la riedizione, nel 1826, di quasi tutta la sua opera storiografica presso Treuttel & Würtz. Augustin Thierry e Jules Michelet, astri nascenti della storiografia romantica francese tra anni Venti e anni Trenta, si rivolgevano al ginevrino come al campione della nuova ‘verità’ storica e della storiografia come militanza liberale e antitirannica (cfr. Trénard 1976, 31748). Perfino François Guizot, introducendo il suo Cours agli studenti, avrebbe affermato che l’Histoire des Français, giunta a fine anni Venti all’epoca di Filippo il Bello, rappresentava l’opera migliore mai apparsa sulla storia di Francia. Il professore non gli lesinava peraltro molte critiche, ma di fatto l’unica lettura consigliata ai suoi studenti era proprio quella scritta dall’autore ginevrino (si veda Guizot 1840, vol. I, 39-40). Una stagione di intensa fortuna, si diceva, quella degli anni Venti, susseguita alla caduta in disgrazia post-Restaurazione e post-Cento Giorni4, e che sarebbe stata a sua volta seguita da una fase di graduale distacco critico da parte di Sismondi rispetto al trionfante ottimismo degli anni Trenta. Il nostro libro si colloca esattamente ai capi di queste due stagioni, prima con le lezioni ginevrine e poi con le edizioni francese, inglese e italiana dei due volumetti senza note. In questo senso, rappresenta senza ombra di dubbio un osservatorio speciale e unico per esaminare un lungo tratto della traiettoria personale, intellettuale e politica di Sismondi, e per misurare al contempo le tacche di un ripensamento sia delle fonti della giovinezza sia pure delle opere del cosiddetto Romanticismo liberale. Il tutto, è bene premetterlo f in da subito, con un occhio di riguardo per una polemica che da attuale rivestiva per l’ennesima volta i panni del processo storico, e cioè la lotta contro il pauperismo e contro la schiavitù. A questa si univa, anzi faceva la sua apparizione proprio in questa sede, una precoce riflessione sugli imperi di ogni epoca, con fosche ricadute sull’età a lui contemporanea.